mercoledì 27 luglio 2011

STEFANO PROTONOTARO - PIR MEU CORI ALLIGRARI



 
(1190-1250)

Pir meu cori alligrari,chi multu longiamenti senza alligranza e joi d'amuri è statu,mi ritornu in cantari,ca forsi levimenti da dimuranza turniria in usatu di lu troppu taciri;e quandu l'omu ha rasuni di diri,ben di' cantari e mustrari alligranza,ca senza dimustranza joi siria sempri di pocu valuri:dunca ben di' cantar onni amaduri.


E si pir ben amari cantau jujusamenti omu chi avissi in alcun tempu amatu,ben lu diviria fari plui dilittusamenti eu, chi son di tal donna innamuratu,dundi è dulci placiri,preju e valenza e jujusu pariri e di billizzi cutant'abundanza chi illu m'è pir simblanza,quandu eu la guardu, sintir la dulzuri chi fa la tigra in illu miraturi;


chi si vidi livari multu crudilimenti sua nuritura, chi ill'ha nutricatu: e sì bonu li pari mirarsi dulcimenti dintru unu speclu chi li esti amustratu,chi l'ublïa siguiri.Cusì m'è dulci mia donna vidiri: ca 'n lei guardandu mettu in ublïianza tutta autra mia intindanza,sì chi istanti mi feri sou amuri d'un colpu chi inavanza tutisuri.


Di chi eu putia sanari multu leggeramenti,sulu chi fussi a la mia donna a gratu meu sirviri e pinari; m'eu duttu fortimenti chi, quandu si rimembra di sou statu,nun li dia displaciri.Ma si quistu putissi adiviniri, ch'Amori la ferissi di la lanza che mi fer'e mi lanza, ben crederia guarir di mei doluri,ca sintiramu engualimenti arduri.


Purrïami laudari d'Amori bonamenti com'omu da lui beni ammiritatu; ma beni è da blasmari Amur virasimenti quandu illu dà favur da l'unu la tue l'autru fa languiri: chi si l'amanti nun sa suffiriri, disia d'amari e perdi sua speranza. Ma eu suffru in usanza,ca ho vistu adess'a bon suffirituri vinciri prova et aquistari unuri.


E si pir suffriri ni per amar lïalmenti e timiri omu acquistau d'amur gran beninanza, digiu avir confurtanza eu, chi amu e timu e servivi a tutturi cilatamenti plui chi autru amaduri.

6 commenti:

  1. La prima produzione poetica in volgare italiano si situa intorno alla prima metà del secolo XIII, con un notevole ritardo rispetto alle letterature francesi in lingua d'oc e in lingua d'oil. La diffusione della poesia provenzale in Italia, anche grazie all'opera di trovatori attivi presso le corti italiane, influenza notevolmente la nascente poesia lirica italiana, sia sul piano tematico, sia su quello stilistico.
    Alla fine del Duecento, in Toscana, il genere lirico si istituzionalizza in un canone fisso caratterizzato non solo da determinati temi e metri, ma da una lingua unitaria. Tale canone risulta fondato su una tradizione che risale alla poesia dei trovatori e alla cui base, in Italia, sta l’esperienza della Scuola siciliana. Furono i Siciliani, infatti, presso la corte di Federico II, ad impiegare per la prima volta un volgare italiano nella lirica d’amore, ispirandosi a quella provenzale. Tale fu l’influenza della poesia siciliana che i poeti successivi, sino agli stilnovisti, furono chiamati siciliani anche se operavano in regioni del Centro o del Nord Italia. Dante nel De vulgari eloquentia attesta che tutto ciò che sino allora gli Italiani erano andati componendo in poesia era chiamato "siciliano".

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  2. Oggi si parla di Scuola siciliana solo per indicare il gruppo di poeti (25 circa) attivi nel periodo fra il 1230 e il 1266, quando, con la battaglia di Benevento in cui venne sconfitto il figlio e successore di Federico, Manfredi, il sogno ghibellino della dinastia sveva subì una crisi rapida e definitiva. In realtà, il periodo di fioritura vera e propria della Scuola siciliana fu ancora più breve e si concentrò nel ventennio 1230-1250. I maggiori poeti siciliani furono Giacomo da Lentini e, dopo di lui, Guido delle Colonne , Stefano Protonotaro. Alla tradizione siciliana si ispira, ma per rovesciarla, anche Cielo d’Alcamo. Rispetto al modello provenzale, cambia anzitutto la figura del poeta. Questi non è più un professionista proveniente dalle file dei cavalieri poveri e della piccola nobiltà, né un giullare, ma, quasi sempre, un borghese che esercita funzioni giuridiche e amministrative a corte (spesso, dunque, un giudice o un notaio), e che si dedica alla poesia solo per diletto (è, insomma, un dilettante). Probabilmente per questa ragione il poeta siciliano, a differenza di quello provenzale, non è anche musicista: egli non compone melodie e le sue poesie non sono accompagnate dalla musica né destinate alla recitazione o al canto, bensì solo alla lettura. In qualche caso, le poesie possono essere anche musicate, ma ciò avviene per lo più per intervento di un altro artefice, esperto di musica. Comincia ora quel divorzio fra poesia e musica che non era dato riscontrare nella tradizione provenzale e che qualifica invece la tradizione "moderna" del genere lirico. Le differenze politiche e sociali determinano anche alcune differenze tematiche. Resta indubbiamente il motivo del vassallaggio d’amore preso in prestito dalla società feudale, con le offerte, da parte del soggetto poetico, del "servizio" d’amore nella speranza di avere in cambio dalla donna una ricompensa. Ma la realtà in cui vivono i poeti siciliani è cortigiana, non feudale. Ciò spiega perché, spesso, l’accento cada, più che sul rapporto d’amore fra vassallo e dama, sull’amore in quanto tale. La poesia siciliana è insomma assai più astratta e rarefatta di quella provenzale, più lontana dalla concretezza delle situazioni reali e della cronaca. La figura della donna è meno delineata, mentre spesso il centro lirico è costituito da una riflessione sulla fenomenologia dell’amore, con il conseguente processo, da un lato, di introspezione psicologica e di interiorizzazione e, dall’altro, di intellettualizzazione dell’esperienza d’amore, che viene sottoposta a considerazioni d’ordine scientifico o accostata a momenti e aspetti materiali della vita animale e vegetale. Quest’ultimo aspetto dipende poi, in buona misura, dal gusto scientifico e naturalistico tipico della cultura laica prevalente alla corte sveva. Le strutture metriche e retoriche della poesia siciliana hanno condizionato l’intera tradizione lirica italiana, che trova in esse il loro modello originario. Esse si rifanno a quelle della poesia trovadorica, però selezionandole rigorosamente in modo da escludere le forme legate alla lotta politica (come il sirventese) o più ispirate alla cronaca. D’altronde, il regime imperiale non concedeva quel clima di libertà e di contraddizioni politiche da cui poteva nascere la poesia politica in Provenza o nell’Italia del Nord e del centro. Le strutture metriche vengono ridotte a tre principali: la canzone (derivata dalla canso provenzale), che diventa la forma più elevata e illustre di poesia lirica; la canzonetta, avente una struttura narrativa e dialogica e dunque si presta ad argomenti meno nobili ed elevati; il sonetto, che è una vera e propria invenzione siciliana, essendo stato usato per la prima volta dal caposcuola dei Siciliani, Giacomo da Lentini. Il sonetto tratta argomenti diversi, prevalentemente, presso i Siciliani, discorsivi, teorici, filosofici e morali (è usato, per esempio, per le tenzoni sull’amore di Giacomo da Lentini con Pier delle Vigne e altri rimatori siciliani e toscani), ma anche amorosi e scherzosi.

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  3. È un componimento di minore impegno rispetto alla canzone e per questo può aprirsi, in una certa misura, anche alla realtà quotidiana. Data la sua natura raffinata e altamente selettiva, la lirica siciliana si esprime in un linguaggio aulico ed elevato. Il volgare siciliano ne costituisce la base, seppure depurata attraverso il filtro della conoscenza del latino, del provenzale, degli altri volgari italiani. Si tratta dunque di un volgare illustre e interregionale. Possiamo ricostruire la lingua poetica dei Siciliani soltanto per approssimazione. Infatti della lingua da loro effettivamente impiegata possediamo solo una scarsa documentazione (di cui fa parte, fortunatamente, anche una canzone di Stefano Protonotaro), giuntaci attraverso il lavoro di un filologo del Cinquecento, Giovanni Maria Barbieri, che poteva disporre di un codice originario siciliano oggi perduto. Con la crisi rapida e improvvisa della civiltà siciliana seguita alla sconfitta di Benevento, i canzonieri siciliani che raccoglievano la produzione poetica della Scuola non furono più né tramandati né ricopiati e quelli esistenti andarono perduti. Essi erano stati però ricopiati in Toscana da copisti che ne avevano alterato la lingua, volgendola dal siciliano al toscano. I tre codici che conservano i canzonieri del Duecento — e cioè il Laurenziano, il Palatino e il Vaticano Latino 3793 — sono stati redatti verso la fine del Duecento rispettivamente a Pisa, a Lucca e a Firenze. Seppure in maniera diversa, essi ordinano la materia poetica dai Siciliani ai rimatori Siculo-toscani sino ai primi Stilnovisti, rispecchiando il gusto linguistico e letterario allora dominante in Toscana. A partire dalla fine del Duecento sino a oggi i Siciliani si leggono dunque nella redazione toscana. Che questa redazione abbia avuto, sin dall’inizio, l’autorità di imporre norme e consuetudini è provato da un fatto curioso e quasi paradossale. Poiché la trascrizione toscana — la quale, per esempio, modificava la -u finale siciliana in -o o in -a e la -i in -e — non poteva rispettare il sistema delle rime dell’originale siciliano, di necessità essa trasformava diverse rime perfette in rime imperfette. Ebbene, queste ultime, attribuite agli autori, quando invece erano state introdotte dai copisti toscani, furono tramandate come rime "siciliane" e in quanto tali prese a modello e usate da rimatori toscani.

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  4. La poesia siciliana si diffonde nell'Italia centrale grazie alle traduzioni e alle imitazioni che ne elabora, nei decenni immediatamente successivi, un gruppo di poeti toscani che riconosce come proprio maestro Guittone d'Arezzo. Nella realtà comunale della Toscana duecentesca, caratterizzata dalla lotta tra le fazioni politiche, accanto alla poesia amorosa, che riproduce senza grande originalità i modelli provenzali e siciliani, si sviluppa anche una poesia di tema politico, che si rifà all'esempio dei sirventesi provenzali. Per la loro opera di diffusione dei testi siciliani e per l'influenza da essi subita, i poeti di questo gruppo vengono spesso definiti siculo-toscani.

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  5. "Dolce stil novo" è la denominazione con cui Dante nella Commedia definisce una nuova poetica letteraria che si affermò a Firenze nel periodo 1280-1310. I suoi maggiori rappresentanti furono Guido Cavalcanti e Dante stesso; ma fecero parte di questa tendenza altri tre poeti fiorentini, Lapo Gianni, Gianni Alfani, Dino Frescobaldi, e uno pistoiese, Cino da Pistoia. Ne fu precursore e iniziatore, però, un bolognese, Guido Guinizzelli, che compose le sue rime qualche anno prima, all’incirca nel quindicennio fra il 1260 e il 1276, anno della morte. La "novità" del "dolce stil" va cercata nell’originalità rispetto alla Scuola siciliana nel seguire i dettami d’Amore e nell’assoluta fedeltà nei loro confronti a cui invece si sarebbero sottratti i Siculo-toscani. Dante, infatti, per descrivere a Bonagiunta da Lucca le proprie scelte di poetica, si era autorappresentato così: "I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando". Due canti dopo, nel XXVI del Purgatorio, Dante incontrerà Guinizzelli e lo chiamerà "padre mio", così riconoscendogli il ruolo di iniziatore della nuova poetica, caratterizzata ­ si dice ora ­ da "rime d’amor dolci e leggiadre". Tale "novità" è sia tematica che stilistica. Sul piano tematico, Dante sottolinea l’assoluta fedeltà ai dettami d’Amore. Ciò significava tornare ai Siciliani, scartando l’esperienza guittoniana, più eterogenea, varia, aperta anche a motivi politici, morali, alla contingenza quotidiana. Ma rispetto ai Siciliani la nuova poetica si distingue per due ragioni: anzitutto è diversa la sua concezione dell’amore; in secondo luogo l’attenzione alla fenomenologia dell’amore è guidata da una dottrina precisa: il poeta intende registrare (o annotare) i modi con cui esso "spira", e cioè crea nell’anima turbamenti, sentimenti, movimenti psicologici. Si tratta di due questioni diverse: la prima implica una problematica teorica e filosofica (che cos’è l’amore), la seconda una scientifica e psicologica (come agisce nell’anima). Per gli stilnovisti l’amore non è più un semplice corteggiamento, ma diventa elevazione spirituale, adorazione di una donna che può assumere i tratti di un angelo, e cioè di una creatura intermediaria fra terra e cielo, fra il mondo profano e quello divino. La figura della donna-angelo cessa di essere una semplice metafora, come era presso i Provenzali e i Siciliani, e tende a divenire una possibilità effettiva di mediazione fra il poeta e Dio. È questo un motivo nuovo, estraneo alla tradizione lirica, anche se in qualche modo anticipato nella linea che va dalle teorie d’amore di Andrea Cappellano agli ultimi Provenzali sino ai Siciliani. Essere "gentili" di cuore (come scrive Guinizzelli), e cioè nobili per animo e per cultura, comporta una tendenza all’elevazione spirituale che si realizza contemporaneamente nella poesia, nell’amore, nella spiritualità religiosa. Per essere fedeli ad Amore e descriverne le dinamiche psicologiche si richiedono conoscenze scientifiche e teoriche che guittoniana non possedeva: di qui il disprezzo di Cavalcanti e di Dante per questo poeta, giudicato troppo rozzo perché privo di un’adeguata filosofia d’amore.

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  6. Queste cognizioni teoriche derivano poi dal pensiero di san Tommaso e dalla scolastica, ma anche dalla mistica francescana, insegnata all’università di Bologna dal francescano agostiniano Bartolomeo da Bologna, autore di un trattato sulla luce (De luce) che ebbe un’indubbia influenza su Guinizzelli e sugli altri stilnovisti. Per quanto riguarda la novità sul piano stilistico (sottolineata da Dante già nella denominazione di "Dolce stil novo"), essa riguarda l’amalgama linguistico, metrico, sintattico che deve risultare "dolce". Occorre, insomma, anzitutto, un volgare illustre che sia il più possibile elevato e puro e insieme musicale e melodioso. La nuova poetica si qualifica, anche in questo caso, in opposizione a guittoniana e ai guittoniani. L’ideale stilnovistico è rappresentato, sul piano dello stile, da una "soavità espressiva" (Quaglio) del tutto coerente sia con il clima rarefatto e aristocratico che caratterizza la nuova poesia, sia con la delicatezza dei sentimenti e delle immagini con cui essa si esprime. La struttura metrica più usata è la canzone (seguono la ballata e il sonetto), considerata la forma più elevata di espressione dello stile "tragico" e quindi maggiormente in grado di segnare la distanza dallo stile "comico", più basso e immediato. E il pubblico delle "nove rime" sarà quello, molto selezionato e ristretto, che proviene dalla nobiltà feudale e dagli strati intellettuali più elevati. Gli stilnovisti si considerano una cerchia eletta che trova nella propria superiorità culturale e nella propria raffinatezza spirituale le ragioni di un prestigio sociale non più dipendente dalla nobiltà di sangue, ma solo da quella dell’animo (che ora è chiamata "gentilezza"). Gli stilnovisti provengono quasi sempre dalle file della nuova borghesia urbana e non da quelle della vecchia nobiltà feudale; nei loro versi la realtà cittadina s’intravede da un nuovo punto di vista: non quello, che appare per esempio dal canzoniere di guittoniana, degli scontri politici e degli odi feroci fra i partiti contrapposti, bensì l’altro, delicato e lieve, degli incontri, delle occhiate e dei saluti d’amore per le strade urbane o in chiesa. La nuova realtà cittadina s’intravede nel rapporto con una donna che scende per strada e frequenta la messa. La donna appare per via, talora circondata dalle amiche, e la sua bellezza, in cui tenerezza sensuale e fascino spirituale si fondono, colpisce, attraverso la luce degli occhi, il cuore del poeta. Appare così il motivo dell’incontro e del saluto, che assume anche il significato di una "salvezza" spirituale per chi lo riceve ("saluto" e "salvezza" derivano dalla stessa parola latina, salus).

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